Is it possible to bring together the three titles which define the “popular Verdi trilogy” with a common thread that unites them, and a single directing and dramaturgical style? Francesco Micheli, the maestro Fabio Luisi, and the Maggio believe so, convinced that the “trilogy” presents Giuseppe Verdi as one of the nation’s fathers. “That thread that unites, passes and weaves the plots, taking on the colours of our flag, leads the “trilogy” to become a polyptych of intense colours, which tells us what we are, that which we should be, or rather that which we want to be. Red is fire, blood, murder, the predominant colour which runs throughout the Trovatore.
Il trovatore
Opera in four acts
Libretto by Salvadore Cammarano and Leone Emanuele Bardare from El Trovador by Antonio García Gutiérrez
Music by Giuseppe Verdi
First performance: January 19, 1853 at Teatro Apollo di Roma
Scena I. L’atrio del palazzo dell’Aliaferia. Notte.
Ferrando, comandante degli armigeri, esorta i familiari del conte di Luna a vegliare fino al ritorno del loro signore. Il conte passa le notti davanti ai balconi dell’appartamento reale: ama Leonora, dama della regina, ed è geloso del trovatore, il cui canto notturno risuona a volte nei giardini del palazzo. Familiari e armigeri invitano Ferrando a distrarli narrando la storia di Garzia, fratello del conte di Luna. Ancora in fasce Garzia fu ammaliato da una zingara trovata accanto alla sua culla: il vecchio conte la fece condannare al rogo, ma la figlia della strega rapì il fanciullo, e dove era sorto il rogo della zingara fu ritrovato lo scheletro carbonizzato di un bambino. Il vecchio conte ne morì di crepacuore, pure un presentimento lo indusse a fare promettere al figlio superstite di continuare le indagini: ma la figlia della strega non fu mai rintracciata. I soldati inveiscono: sarebbe tempo di spedirla all’inferno presso la madre. Ferrando s’incupisce: l’anima della vecchia strega infesta ancora il castello. I famigli annuiscono: essa appare verso la mezzanotte in varie sembianze, un servo del conte ne è morto di paura. La campana annunzia improvvisamente la mezzanotte e tutti fuggono in preda al terrore.
Scene II-V. Giardini del palazzo. Sulla destra, scalinata marmorea che immette agli appartamenti. Notte inoltrata.
Ines, confidente di Leonora, la esorta a rientrare: la regina l’ha già fatta cercare. Ma Leonora attende il trovatore: cavaliere sconosciuto, lo incontrò nei tornei, e gli cinse il serto della vittoria. Poi sopravvenne la guerra civile: non lo vide più, finché un giorno intese sotto le finestre il canto di un trovatore: era l’amato che l’invocava. Invano Ines tenta di dissuadere Leonora: se ella non potrà vivere per lui preferirà la morte. Le due donne rientrano e si avanza il conte di Luna. La regina dorme, ma Leonora veglia ancora; cieco d’amore il conte decide di parlarle. Il liuto del trovatore lo arresta: si ode la romanza del rivale. Leonora accorre e nell’oscurità abbraccia il conte: la luna esce dalle nuvole, l’inganno è palese, e la donna si getta ai piedi del trovatore ottenendone il perdono. Furente, il conte costringe il rivale a dichiarare la sua identità: egli è Manrico, un proscritto seguace di Urgel. Il conte e Manrico iniziano a battersi, e invano Leonora tenta di trattenerli.
Parte Seconda - La gitana
Scene I-II. Un accampamento sulle falde di un monte della Biscaglia. I primi albori.
Azucena e Manrico si riscaldano al fuoco mentre gli zingari martellano a suon di musica i loro attrezzi. Azucena attacca la sua canzone: essa rievoca il rogo sul quale fu arsa la madre. Rivolta poi a Manrico, gli mormora un’esortazione misteriosa: “Mi vendica!”. Uno zingaro annunzia che è ora di recarsi al lavoro, e sulla ripresa del coro i gitani si allontanano. Manrico chiede ad Azucena di riprendere la narrazione interrotta: la storia narra la fine dell’ava, replica Azucena. Accusata di malefizio, fu condannata al rogo dal conte di Luna: la bruciarono là dove arde il fuoco. “Mi vendica!” furono le parole della zingara sulla via del supplizio. Azucena rapì il figlio del conte: già era commossa dai suoi pianti, quando le riapparve la visione della fiamma e udì il “mi vendica!”; allora strinse il bambino e lo spinse nel fuoco. La visione disparve, ma il figlio del conte le stava ancora dinanzi; aveva bruciato il proprio figlio. Manrico sospetta: non è dunque il figlio di Azucena. Ma la zingara si riprende: il pensiero del rogo la fa divagare; e poi per Manrico essa è stata più che madre: ne ha risanato le ferite, quando fu lasciato per morto dalla squadra del conte di Luna dopo la rotta di Pelilla. Ecco la ricompensa per avere risparmiato nel duello la vita del conte, replica Azucena. Manrico racconta: stava per vibrare il colpo decisivo quando una voce celeste lo ha trattenuto. Essa non ha trovato eco nel cuore ingrato del conte, commenta Azucena, e fa giurare a Manrico di trafiggere il rivale, dovesse ripresentarsi l’occasione. Un suono di corno annunzia il messo. Castellor è in mano del partito di Urgel e Leonora, affranta per la presunta morte di Manrico, prenderà il velo dopo il tramonto. Manrico scatta, ordina un cavallo; invano Azucena gli rammenta le ferite appena rimarginate: egli morrebbe se avesse a perdere Leonora, e si allontana fra la disperazione della madre.
Scene III-V. Atrio interno di un convento nelle vicinanze di Castellor. Notte.
Il conte, Ferrando e seguaci s’inoltrano. Giungono a tempo: il conte non può rinunziare a Leonora; spera che il suo ardore riesca a intercedere in suo favore. Suona una campana. Il conte è più che mai deciso a rapire Leonora e i seguaci si mettono in agguato fra gli alberi: il conte si rallegra ancora al pensiero dell’impresa, prima di raggiungerli nell’ombra. Si ode il coro interno delle religiose che preparano la vestizione ed esso è contrappuntato dalle esortazioni all’azione del conte e dei seguaci. Avanza Leonora fra le religiose; conforta Ines: il mondo non ha più gioie per lei, non le resta che rivolgersi a Dio e prepararsi a ricongiungersi in cielo con Manrico. Il conte le sbarra il passo; annunzia l’intenzione del rapimento, quando compare Manrico. Leonora esulta estatica, il conte impreca, Manrico fida nell’aiuto celeste. Entrano gli armati del trovatore e disarmano il conte. Manrico fugge con Leonora.
Parte Terza - Il figlio della zingara
Scene I-IV. Accampamento; a destra padiglione del conte di Luna con l’insegna del comando supremo. Da lontano torreggia Castellor.
La gente d’arme del conte gioca a dadi; giungono rinforzi; l’indomani, annuncia Ferrando, attaccheranno Castellor; il bottino e la vittoria sono assicurati. Sugli squilli di tromba, Ferrando e gli armigeri cantano una marcia di vittoria: il conte esce dalla tenda, il pensiero di Leonora fra le braccia del rivale lo tormenta. Ferrando gli annunzia che gli esploratori hanno catturato una zingara che si aggirava di nascosto attorno all’accampamento. Sospinta dagli sgherri entra Azucena e il conte la interroga: essa viene dalla Biscaglia; Ferrando sospetta di avere dinanzi colei che ha rapito Garzia. Azucena narra che è scesa dai monti in cerca del figlio; il conte insiste: ha mai sentito parlare di un bambino rapito, figlio di conti? Azucena trasale e nega; ma Ferrando è ormai certo: essa è la strega che rapì Garzia. Il conte l’affida agli sgherri, e nella sua disperazione Azucena invoca il soccorso di Manrico. Il conte gioisce ancor più, poiché ha nelle sue mani la madre del rivale e potrà al tempo stesso vendicare il fratello. Azucena si appella al Dio dei miseri.
Scene V-VI. Sala adiacente alla cappella in Castellor.
Manrico e Leonora si apprestano a celebrare le nozze, ma la donna osserva il movimento degli armati e teme. Manrico la conforta: sposo di Leonora, avrà più forte il braccio e, dovesse pur morire, spirerà col suo nome sulle labbra. Suona l’organo della cappella vicina e li invita al rito. Entra trafelato Ruiz: Azucena è prigioniera del conte, dalla finestra si scorge già la pira. Manrico scatta, ordina di radunare gli armati e attacca la cabaletta: “Di quella pira”. Rientra Ruiz con gli armati, Manrico li incita e tutti si avviano alla battaglia.
Parte Quarta - Il supplizio
Scene I-II. Un’ala del palazzo dell’Aliaferia: all’angolo si erge una torre. Notte oscurissima.
Leonora e Ruiz avanzano sotto la torre in cui è racchiuso Manrico. Leonora congeda Ruiz, fissa una gemma in cui nasconde un veleno, spera che il vento rechi a Manrico i suoi sospiri, il suo amore e non le sue pene. Si ode la campana dei morti e il Miserere per i condannati. Leonora è disperata: dalla torre il trovatore fa giungere all’amata l’ultimo addio. La donna è decisa: mai in terra si vide amore più forte del suo, salverà Manrico a prezzo della propria vita. Il conte di Luna ordina le esecuzioni: la scure al figlio, il rogo alla madre. Torna al pensiero di Leonora: ripreso Castellor essa sparì; la invoca, e Leonora si fa avanti. Essa impetra la grazia per il trovatore, ma la costanza del suo amore rende più inflessibile il rivale. Leonora offre se stessa in cambio della vita di Manrico. Il conte dà un ordine al custode, nel mentre Leonora beve il veleno. Essa esulta fra le lacrime: morendo potrà dire a Manrico di averlo salvato. Il conte s’inebria al pensiero della promessa di Leonora.
Scene III-IV. Orrido carcere.
Azucena non riesce a prendere sonno: il rogo della madre le è sempre presente. Manrico la conforta e la invita a riposare; nel dormiveglia la gitana evoca i monti della Biscaglia, Manrico la asseconda. Leonora entra nel carcere: il trovatore deve fuggire e subito. Egli si arresta: la sua vita è un dono del rivale; accusa Leonora di tradimento; essa non può che opporgli l’ingiustizia del sospetto, nel mentre Azucena riprende la sua canzone. Leonora supplica ancora Manrico e cade già rósa dal veleno: ha preferito la morte alla vita con un altro; Manrico si ricrede, s’inginocchia accanto alla morente. Sopraggiunge il conte e si arresta sulla soglia: Leonora lo ha ingannato, preferendo morire per il trovatore. Quindi affida Manrico agli armati per l’esecuzione. Azucena si desta, chiede del figlio, vuole fermare il supplizio: il conte la trascina alla finestra e la fa assistere alla decapitazione. A questo punto Azucena rivela il suo segreto: Manrico era Garzia, fratello del conte. La madre è vendicata.
GIUSEPPE VERDI
Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nasce a Le Roncole di Busseto, vicino a Parma, il 10 ottobre 1813. Riceve i primi rudimenti di musica suonando l’organo della locale parrocchia e nel 1832, grazie al mecenatismo di Antonio Barezzi, può trasferirsi a Milano, nonostante non sia ammesso al Conservatorio. Oberto conte di San Bonifacio, la sua prima opera, va in scena con discreto successo alla Scala nel 1839 ma è Nabucco, tre anni più tardi, il primo grande trionfo. Dopo tanti capolavori, tra cui Ernani (1844) e Macbeth (1847), tra il 1851 e il 1853 nasce la “trilogia popolare”: Rigoletto, Il trovatore e La traviata. Arrivano importanti commissioni anche dall’estero: Les vêpres siciliennes (Parigi, 1855), La forza del destino (San Pietroburgo, 1862), Don Carlos (Parigi, 1867) e Aida (Il Cairo, 1871). Dopo la Messa di Requiem (1874), Otello (1887) e Falstaff (1893), muore a Milano il 27 gennaio 1901.