L’arte della sopravvivenza. All’ombra del Cremlino. Fra esaltazione e umiliazione, ricatti, critiche e autocritiche, le trame oscure, i viaggi ufficiali e i riconoscimenti. Uomo immagine, diremmo oggi. Da esportazione. Del resto si tratta pur sempre di un testimone eccellente, insignito dell’Ordine di Lenin, eletto Artista del Popolo dell’Urss. Il necrologio, il 9 agosto 1975, recita: “È mancato all’età di sessantanove anni il grande compositore Dmitrij Dmitrevič Šostakovič. Fedele figlio del Partito comunista, eminente figura sociale e pubblica, il cittadino artista Šostakovič ha dedicato tutta la sua vita allo sviluppo della musica sovietica riaffermando gli ideali dell’umanesimo socialista e dell’internazionalismo”. Stalin amava il cinema. Non solo come arma di propaganda. “I film se li faceva proiettare nella sala del Cremlino soprattutto di notte insieme ai membri del Politburo e andava matto per Tarzan, non se ne lasciava sfuggire uno” svelerà Šostakovič nelle sue memorie. E amava che a “musicarlo”, per renderlo vieppiù commovente, efficace e narrativamente appassionante, fosse lui, Dmitrij Dmitrevič Šostakovič. “Per il quale – scrive Solomon Volkov – scrivere musica per film era il suo ‘dare a Cesare’, nel senso che gli sembrava un modo efficace e relativamente innocuo di restare in vita e di poter lavorare alla musica che considerava degna di essere scritta”. Esercizi di sopravvivenza. Al pianoforte.
Šostakovič autore di colonne sonore è un capitolo intrigante nel suo itinerario artistico. Ma ovviamente un ripiego. Come per Orson Welles. Che non rifiutava comparsate e partecipazioni a filmacci e filmetti d’ogni risma in vista del capolavoro. I così detti film “alimentari”. E alimentare, nel senso più autentico e immediato del termine, era l’adesione di Šostakovič al cinema. Da quando diciassettenne al pianoforte (per pochi rubli) accompagnava le proiezioni al Teatro della Barricata di Leningrado. Ricorda la madre: “È una tragedia considerando la sua salute e la pesantezza del lavoro. Il piccolo cinema è vecchio, pieno di correnti d’aria e puzzolente. Tre volte al giorno una nuova folla vi si stipa portando ogni volta con sé la neve sulle scarpe e sui cappotti. In fondo, sotto lo schermo, sedeva Mitja, la schiena bagnata di sudore, gli occhi miopi, dietro gli occhiali, volti in alto per seguire la vicenda, mentre pestava con le dita sul rauco pianoforte verticale. A notte fonda si trascinava faticosamente a casa avvolto in un soprabito leggero, con in testa un berretto estivo, senza guanti imbottiti né soprascarpe e arrivava esausto verso l’una del mattino”. Un mix di neorealismo italiano e realismo socialista con un tocco magico di poesia, fra Gogol’ e Chaplin. Più tardi, nel 1942, la moglie del compositore fornirà un’altra versione dei fatti: “La natura spontanea e sincera di Dmitrij provocò la sua rovina. Tre volte al giorno davano una commedia americana con enorme successo. Ogni volta che certe scene apparivano sullo schermo il pianoforte taceva e il pubblico udiva il pianista scoppiare a ridere, divertito dai lazzi del comico. Fu per questo comportamento irriverente, che la direzione decise di privarsi dei servigi dell’allegro pianista”. Che intanto, oltre lo schermo della Barricata, stava già scrivendo la sua prima sinfonia.
Il primo “cont(r)atto” di Šostakovič compositore per il cinema lascerà il segno. È la suite sinfonica scritta nel 1928 per La nuova Babilonia di Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg, due giovani registi poco più che ventenni, coetanei di Ėjzenštejn, coi quali Šostakovič collaborerà in seguito in diverse occasioni. Segnerà Babilonia l’inizio di una “carriera” brillante e corposa (alla fine si conteranno una quarantina di colonne sonore), vissuta sul filo del rasoio. Perché non era facile fare i film “giusti” e neanche le musiche “adatte”. Pravda, Zdanov e Beria erano sempre lì col fucile puntato, pronto a colpire. Non si contano quindi i contributi di Šostakovič a opere di pura propaganda (in primis per l’esaltazione che di Stalin veniva fatta La caduta di Berlino e L’indimenticabile 1919 di Michail Čiaureli), manifesti edificanti di un immaginario politico kolkoziano, dove “si narravano storie d’amore fra giovani eroi e nuovi trattori”. A chi gli contestava (la domanda era inevitabile) come avesse fatto a partecipare a simili, assai poco nobili imprese, Šostakovič ribatteva: “Čechov soleva dire che lui scriveva di tutto, tranne denunce. E io la penso allo stesso modo. Lo so, il mio è un punto di vista assai poco aristocratico”. Ma aggiungeva: “C’è però un’altra sfumatura che si rivelò piuttosto importante. Il fatto è che da noi la cinematografia è la forma aristocratica di maggior peso. Ho la ferma convinzione che il cinema sia un’industria e non un’arte. Comunque la parte che ho avuto in questa industria di primaria importanza nazionale mi ha salvato e più di una volta”. Fra questi necessari compromessi salvavita, grondanti retorica, spirito di sacrificio, amore patrio, limpidi esempi di realismo socialista, ricordiamo Contropiano e L’uomo col fucile di Sergej Jutkevič, Il grande cittadino di Friedrich Ermler, Incontro sull’Elba di Grigorij Aleksandrov, La giovane guardia di Sergej Gerasimov, Micurin di Aleksandr Dovženko, Le amiche e Zoja di Lev Oskarovic Arnstam. Su tutti spicca La trilogia di Massimo, girato fra il 1935 e il ’39 da Kozincev e Trauberg che costruiscono un grande affresco epico in tre puntate (La giovinezza di Massimo, Il ritorno di Massimo, Il quartiere di Viborg) che attraverso la figura e la biografia del protagonista, riassume e sintetizza l’itinerario di tutta la classe operaia russa. La colonna sonora di Šostakovič ne accompagna le imprese, la maturazione e la presa di coscienza, da giovane e spensierato operaio a disciplinato commissario del popolo. E resta in patria, le canzoni soprattutto, patrimonio del folclore musicale russo, la sua più nota e popolare. Ultimo ciak. Nel fervore ideologico della rimozione stalinista, Šostakovič scrive il commento per il documentario di Joris Ivens dedicato ai più grandi fiumi del mondo. Sono sei: Nilo, Gange, Mississippi, Yangtze, Volga, Rio delle Amazzoni. Se ne aggiunge un settimo: la classe operaia, in lotta e in marcia, che con il suo incessante movimento costituisce il più grande corso d’acqua della terra che nessun sbarramento potrà fermare. Le canzoni, su versi di Bertolt Brecht, sono interpretate dal cantante nero americano Paul Robenson. Era Il canto del fiume. Era il 1954.
Gabriele Rizza
Oktjabr’ (Ottobre)
Novyi Vavilon (Nuova Babilonia)
Čelovek s ružëm (L’uomo con il fucile)
Gamlet (Amleto)
Korol’ Lir (Re Lear)