Basato sulla traduzione di Boris Pasternak, l’Amleto di Kozincev (gettonatissimo nei cineclub e cineforum ai tempi della benemerita Associazione Italia-Urss) è fuor di dubbio fra le migliori, se non la migliore, fra le tante riduzioni cinematografiche scespiriane. Di certo si afferma come una delle più inventive e innovatrici, che non risente dell’inevitabile impianto teatrale e della ineludibile derivazione drammaturgica, pur restandovi fedelmente ancorata, grazie a una recitazione intensa, espressionistica, fortemente interiorizzata, e al ricorso a costumi, ambienti, scenografie fantasiose quanto rarefatte, immerse in un bianco e nero dai toni cupi, di smagliante profondità, giocato sovente sui campi lunghi di spalti, androni, spiazzi, mura. Il vecchio maestro che ha attraversato indenne le stagioni della cinematografia sovietica, dalla rivoluzione allo stalinismo, alla guerra e al dopoguerra fino al nuovo corso kruscioviano, ci sorprende con una ritrovata, inaspettata modernità. Seguendo le intuizioni di Pasternak, per il quale, “lungi dall’essere la tragedia dell’irrisolutezza, Amleto è la tragedia del dovere e dell’abnegazione”, Kozincev crea per l’inquieto principe di Danimarca uno spazio nuovo, insieme mentale e fisico, che si rifà alle radici storiche. Collocato nel suo tempo, ambiente e società, Amleto è circondato da tutti i compagni di viaggio. Senza che nessuno assuma un ruolo predominante, un rilievo particolare. Kozincev racconta minuziosamente il dramma con un rigore cinematografico quasi sempre di grande efficacia, riuscendo a comporre attorno ai personaggi un quadro ambientale assai ricco e significativo. In un castello isolato dal mondo, gli uomini del potere (il re, la regina, Polonio, Amleto, tutti i cortigiani) non sono neppure sfiorati dalla presenza di un popolo che rimane distante, ignorato, muto. Ma è proprio su questa lontananza (figure che corrono, passano, scompaiono, ma sempre sullo sfondo), che il regista insiste. Rifiutando ogni analisi di tipo psicanalitico, come quella di Lawrence Olivier, e non cedendo alle suggestioni teatrali né alle idealizzazioni romantiche, Kozincev tenta l’affascinante impresa dell’interpretazione storica, soprattutto sul terreno delle contraddizioni sociali (il potere e i sudditi, i ricchi e i diseredati, i colti e gli incolti). E il protagonista (un superbo Innokentji Smoktunovskij) funge, nell’ambito di una tale impostazione, da collegamento fra alto e basso, da critico del potere e da inconscio interprete delle esigenze popolari. Un Amleto autentico, tragicamente moderno.