“Dalle due alle tre” versioni di ‘Falstaff’
Intervista di Gianfranco Capitta a Luca Ronconi
Non è la prima volta che Luca Ronconi mette in scena ilFalstaff. Ne ha già realizzati due, uno al Festival di Salisburgo nel 1993, un altro al Maggio Musicale Fiorentino nel 2006. Questa è quindi la sua terza volta con l’opera che Verdi, su libretto di Arrigo Boito, trasse da Shakespeare. Cosa mancava ancora a questo magnifico personaggio, vecchio e burlone, per tornare a lavorarci sopra, probabilmente in modo nuovo e totalmente diverso dalle altre volte?
“È vero. La prima volta c’era sul podio Georg Solti, come orchestre si sono alternati i Berliner e i Wiener Philharmoniker, e protagonista era José van Dam; a Firenze invece dirigeva Zubin Mehta, e Falstaff era Ruggero Raimondi”.
Tutte compagnie molto prestigiose e messinscene rimaste negli annali. Perché ha voluto affrontare nuovamente l’opera? Non era rimasto soddisfatto di quelle esperienze?
“Non che non sia rimasto soddisfatto da quelle edizioni: io ho sempre pensato che Falstaff sia un’opera quasi ‘da camera’, che ha bisogno di una situazione raccolta, e ritengo che anche Verdi ne fosse convinto. In entrambi quei casi (in particolare a Salisburgo) lo spazio scenico era molto dilatato, e di conseguenza anche l’opera doveva essere giocata su quegli spazi. In fondo gli ambienti in cui si svolge sono un’osteria, una casa, e lo stesso giardino non è certo quello di Boboli…”
E la meta di cui si fantastica è delimitata in una privata stanza da letto…
“Appunto, e i trenta metri di apertura del boccascena di Salisburgo hanno fatto sì che la scenografia fosse sicuramente bella, anzi bellissima, ma certo non rispecchiava l’intimità dell’opera, che ne rimaneva persino falsata.
Falstaff, poi, è un personaggio avanti con gli anni, ma inguaribilmente ‘burlone’ rispetto al mondo in cui si ritrova.
“Burlone non so fino a che punto; sicuramente è una figura molto interessante, anche al di fuori dell’opera: penso al personaggio che lo richiama nel film di Gus van Sant, intitolato in Italia Belli e dannati. Falstaff è a suo modo una figura mitica, e come tutti i miti è una specie di assemblaggio di tante cose diverse, anche di figure e immagini di epoche diverse. Non a caso nell’Enrico VIviene degradato sul campo di battaglia un personaggio di nome Falstoff, quando il nostro Fastaff è già morto ai tempi dei re Enrichi precedenti… Insomma è un personaggio astorico. È vero che appare burlone, ma è anche burlato; vive di espedienti, ma è anarchico, è squattrinato e vuole fare soldi. È vecchio, ma si sente giovane, e quindi risulta un po’ mitomane. Insomma, è tantissime cose: a me non dispiace vedergli dentro anche una sorta di infantilismo, come quelli che passano da collere furibonde a folgorazioni immediate. Quindi un carattere non estremamente coerente…”
Proprio in questo senso intendevo ‘burlone’, per la variabilità delle opinioni che cambia e assume continuamente, a dispetto della coerenza che ci si attenderebbe dall’età. Anche se questa è una tradizione che ancora si perpetua.
“Sì, ma Falstaff non è bugiardo!”
Poi attorno a questo protagonista c’è una corte di donne scatenate e senza scrupoli, tanto che proprio a loro è dedicato il titolo della commedia shakespeariana da cui nasce l’opera di Verdi, Le allegre comari di Windsor.
“A me dà fastidio già il solo termine comare, quindi non voglio vedere in scena che delle donne, senza ‘comarizi’. Sono indubbiamente ‘allegre’, ma, come per Falstaff, più che chiedermi come sono, mi interessa interrogarmi sulperché sono così, per quale motivo sono ‘allegre’.”
Questo apre uno scenario quasi più ‘pericoloso’…
“Infatti. Io sono sempre stato contrario ad ‘attualizzare’ un’opera: è inutile vestire i personaggi con abiti di Dolce & Gabbana o di un’altra griffe, così da sembrare che si faccia della pubblicità. Cose rispettabilissime: potrei mettere Falstaff, quando va da Alice, con un bomber per farlo più bello, e fare pubblicità al marchio prescelto. Ma tutto questo non mi appartiene. Per me l’attualità resta ‘attuale’, e le opere hanno tutto il diritto di invecchiare, con tutto il rispetto che si deve loro. Ciò che mi piace che cambi sono invece i rapporti interni tra le figure: quindi un certo atteggiamento ‘androfobico’ che non mi dispiace si veda in queste signore – non per attualizzare, ma per qualcosa che indubbiamente è accaduto rispetto ai tempi in cui Boito scriveva il libretto, rispetto al modo di vedere le donne allora e adesso. E non è necessario cambiarle d’abito: facendo Falstaff voglio fare “il” Falstaff. Naturalmente guardando dentro i rapporti tra i personaggi. Secondo me oggi Bardolfo e Pistola non fanno più ridere nessuno, a meno di non riesumare alcune consuetudini vetuste… È una commedia, ed è giusto che faccia ridere (mi riferisco soprattutto al libretto, non a Verdi). Era probabilmente un tipo di teatro in cui, per far ridere il pubblico, ci si divertiva in palcoscenico, si mimava sulla scena il divertimento del pubblico; penso che oggi il rapporto tra platea e palcoscenico sia cambiato, almeno secondo me.”
Mi sembra piuttosto interessante quello che lei vede nel cerchio femminile dell’opera.
“Le donne qui vengono presentate come ‘pettegole’, ma in realtà sono anche invidiose l’una dell’altra. Con quell’accentuata ‘solidarietà’ femminile che, messe insieme a spartirsi la medesima torta, può scatenare il finimondo. Come tra Meg ‘perdente’ e Alice ‘vittoriosa’, rispetto alle quali risulterà evidente la freschezza di Nannetta. E poi c’è un aspetto ‘sociologico’, che mi aveva già fatto notare Georg Solti quando mi disse che secondo lui “Falstaff è un grand seigneur”. È vero, anche per me è un gran signore, un aristocratico, anche se decaduto: per motivi storici certo, ma anche per un certo orgoglio della degradazione, dato che si trova a confrontarsi con un mondo di proprietari terrieri cafoni, di nuovi ricchi. E questo, ancora, non per desiderio di attualizzazione, ma solo per riportare i rapporti nei giusti termini. Così come abbiamo vestito Fenton da meccanico, e non da “attor giovane”: perché mi pare più giusto che la figlia del proprietario terriero perda la testa per il meccanico…”
Come nel miglior cinema americano, in un qualche film con Liz Taylor…
“Esatto! Non per semplice gusto della citazione, ma per mantenere un distacco storico: non voglio ricollocare l’opera nel suo tempo originario (perché non è né quello medievale né quello elisabettiano), ma in una dimensione ugualmente passata rispetto a noi, solo un po’ più vicina.”
In questi collegamenti con il nostro immaginario risulta chiaro il disegno di questa regia, che si fa quasi esemplare: sia a proposito di Fenton ‘meccanico’ sia a proposito delle ‘comari’ indaffarate e indefesse nelle trame e nei disegni…
“Sono delle vere organizzatrici: rispetto alla festa finale Alice sembra proprio una manager!”
Il problema è quindi quello della ‘nostra’ sensibilità di oggi.
“Esattamente. Deve cambiare il nostro punto di vista…”
E quelli diventano i veri elementi drammaturgici.
“Ma sempre lavorando all’interno dell’opera. Così, per fare un esempio, la festa finale ha tutto il sapore di una punizione, e non di una festa. Anche perché, nello spirito di burla, Falstaff è già stato abbastanza punito quando lo hanno buttato nel Tamigi, e quello successivo sembra davvero un accanimento. Il vero ‘burlato’ in realtà è Ford, il marito. Tanto che il vecchio Falstaff chiede “il cornuto chi è?”. Quest’ultima scena è rivelatrice, e si pone su un piano quasi ‘metafisico’, diabolico. Perché quella che nella prospettiva del teatro elisabettiano sarebbe un masque, e nell’ottocento una féerie, qui diventa una scena violenta, di accanimento su un vecchio, che prima è stato ‘burlato’, poi umiliato e schernito.”
E questo è davvero per noi molto ‘attuale’, e rende in effetti lo spettacolo anche assai diverso dai suoi dueFalstaff precedenti, con un orizzonte differente.
“Mi rendo conto ora che anche quello che avevo fatto a Firenze era in abiti anni ’50, era spiritoso ma di una certa frivolezza, a tratti addirittura inconsistente. Questo al contrario è leggerissimo, ma ha una consistenza maggiore. A livello dei rapporti intersoggettivi, e perfino per quanto riguarda la scenografia. Ce n’è pochissima, solo quello che è scenicamente necessario: nel corso dell’opera cambiano solo tre tappeti, e nel terzo atto tra il primo e il secondo quadro non c’è intervallo, né soluzione di continuità visiva. Spero di essere riuscito a fare unFalstaff lineare e senza stupidaggini, senza finte trovate, leggibile da ogni persona di buon senso.”
Proprio riguardo all’aspetto teatrale, in un libro che abbiamo fatto insieme una trentina di anni fa (Inventare l’opera, edito da Ubulibri) lei affermava che la scenografia, dentro un’opera che è governata innanzitutto dalla musica, è lo strumento principale attraverso cui procede la visione e il lavoro del regista. Quel principio resta in vigore o c’è stata un’evoluzione?
“Quella regola è ancora valida, ma c’è un’evoluzione verso la semplicità. Il fatto che qui la scenografia sia costituita da tre grandi teli tirati con le corde, non vuol dire che non ci sia un forte impatto visivo. Il segno c’è, ed è forte, ma non è dovuto a una scelta puramente ‘pauperista’. Quello che non ho voluto fare è ‘l’ambiente’, e ho volutamente cercato di tirar via la memoria, ancora persistente, del teatro ottocentesco: il giardino, l’osteria, il carcere, la sala regia, che a loro volta sono un portato del teatro del settecento. Tutti questi ambienti oggi si possono far vivere in maniera diversa. Nel mio caso, poi, questa scelta è legata anche all’età. Invecchiando o ti appesantisci o ti alleggerisci. Io sono sempre stato barocco, e continuo ad avere una mentalità barocca, che è la mia. Ma il segno è un’altra cosa, quello diventa più essenziale con gli anni. Mi piace andare più leggero, e meno pesante. Si vede anche nei miei ultimi spettacoli teatrali: mi piace fare qualcosa di immateriale, in assoluta semplicità visiva. Non è una scelta di ‘ideologia teatrale’, ma assolutamente personale. Spesso gli artisti, di qualsiasi disciplina, con l’età tendono a sovraccaricare il proprio segno, quasi perattaccarsi a qualcosa; io, a questo punto della mia vita, cerco invece di liberarmene.”
Si ringrazia per la gentile concessione la Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari